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Acate, dai cugini Salvo al gruppo trentino: sequestro-bis, 10 anni dopo, per il Feudo Arancio

All’epoca la Guardia di Finanza iblea era guidata da Francesco Fallica. Oggi è la Guardia di Finanza di Trento ad ottenere dalla Procura trentina il sequestro del complesso, a seguito delle indagini su Cosa Nostra

(20 marzo 2020)

Dieci anni fa era stata la Guardia di Finanza di Ragusa ad ottenere dalla magistratura iblea, con le proprie indagini, il sequestro del Feudo Arancio di Acate, un grande complesso produttivo vitivinicolo in odor di mafia. Poi però l’inchiesta, incardinata a Trento per competenza territoriale (essendo l’azienda di proprietà del gruppo cooperativo trentino vitivinicolo e frutticolo Mezzacorona), sfociò nel dissequestro e nell’archiviazione per gli indagati. In quel caso molto agguerriti, anche rispetto alla stampa ‘colpevole’ di avere riportato le risultanze investigative riferite in un comunicato stampa dalla Guardia di Finanza iblea allora guidata da Francesco Fallica, eccellente investigatore trasferito dopo i brillanti risultati ottenuti nelle indagini sulle infiltrazioni mafiose nel mercato di Vittoria, furono i dirigenti del gruppo imprenditoriale trentino proprietario del feudo.

Oggi è la Guardia di Finanza di Trento ad ottenere dalla Procura trentina il sequestro del complesso (casali, azienda vinicola e terreni a vite) a seguito delle indagini su Cosa Nostra e sulle sue infiltrazioni nell’economia trentina.

La notizia viene data dalla Procura distrettuale della Repubblica presso il tribunale di Trento e dal Comando provinciale delle Fiamme gialle di Trento che hanno dato esecuzione ad un sequestro preventivo, emesso dal gip su richiesta della locale Procura distrettuale.

Il provvedimento di sequestro è stato eseguito su terreni e fabbricati di due tenute siciliane di proprietà di uno dei più importanti gruppi nazionali operanti a livello internazionale nel settore vitivinicolo. Si tratta di un complesso aziendale, del valore di oltre 70 milioni di euro, che si estende nelle province di Agrigento e Ragusa con oltre 900 ettari di vigneti e numerosi fabbricati.

Contestualmente sono in corso numerose perquisizioni nel domicilio di quattro indagati, ritenuti responsabili, in concorso, del reato di riciclaggio aggravato dall’aver agevolato l’organizzazione criminale Cosa nostra, nonché presso gli altri luoghi nella loro disponibilità.

Le indagini, sviluppatesi attraverso ricostruzioni societarie, esame documentale, accertamenti bancari, acquisizioni informative e acquisizioni testimoniali anche da numerosi collaboratori di giustizia, hanno permesso di appurare che tra il 2000 e il 2005 è stata posta in essere una operazione commerciale, attraverso la quale sono state acquisite le due tenute siciliane dalla precedente proprietà mafiosa per ottenere i terreni e gli edifici pertinenziali precedentemente individuati come funzionali ai progetti di sviluppo del gruppo trentino.

Il quadro indiziario – riferiscono gli inquirenti – raccolto dagli investigatori del Gruppo di Investigazione sulla Criminalità Organizzata (G.I.C.O.) di Trento ha permesso di:
• delineare gravi indizi di responsabilità anche a carico di soggetti del gruppo societario trentino che, con due operazioni contrattuali collegate tra loro, hanno acquisito beni immobili in Sicilia, inizialmente di proprietà dei noti cugini SALVO (Ignazio e Antonino detto “Nino”, uomini d’onore della famiglia di Salemi (TP) del mandamento di Mazara del Vallo), pervenuti ai venditori attraverso il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso commesso dai propri danti causa. Dopo la morte dei due cugini Salvo la gestione formale dei beni è stata affidata a prestanome mentre quella reale, su “delega” di cosa nostra, ad un uomo d’onore palermitano e all’allora capo mandamento di Sambuca di Sicilia, previa autorizzazione di un noto boss latitante;
• appurare che le cessioni delle due tenute al Gruppo trentino si sono perfezionate grazie all’operato congiunto di un commercialista e di un imprenditore, entrambi siciliani, quest’ultimo fornitore nonché socio di minoranza del Gruppo trentino;
• dimostrare che per la componente mafiosa lo scopo del reato di riciclaggio è stato quello di liberarsi di beni immobili ricevuti e/o gestiti attraverso attività criminali per sottrarli a misure cautelari reali e/o per investire il ricavato, così ripulito, in ulteriori imprese delittuose. Di fatto, tenuto conto che la provenienza mafiosa dei beni sarebbe stata sempre identificabile e ricostruibile anche a distanza di molti anni, la loro trasformazione in denaro contante ha consentito a cosa nostra di anonimizzarne l’origine. Secondo un noto collaboratore di giustizia trattasi di “un classico di messa a posto” utile a garantire posti di lavoro, nonché denaro per i professionisti e le aziende contigue alla mafia”.

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