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Sindaco o Sindaca? La consigliera di parità Ferro contraddice la Di Pietro, ma a difenderla arriva Musumeci!

La querelle è scoppiata il 4 dicembre scorso tra la prima cittadina di Augusta, Cettina Di Pietro e un consigliere di Articolo Uno, Giancarlo Triberio che in Consiglio comunale aveva appellato correttamente la Di Pietro con il titolo di “Sindaca”. Un’attenzione alla semantica che la prima cittadina non ha decisamente gradito..

(19 dicembre 2019)

La strada verso l’affermazione della parità di genere per le donne, si sa, è ancora lunga e a sentire certe vicende, riteniamo, davvero tortuosa. Ciò accade ogni giorno e tanto più che la resistenza ad un uso più corretto dei titoli professionali da declinare al femminile per equilibrare la rappresentanza di genere, spesso e volentieri oltrechè dagli uomini arriva dalle donne. A dimostrarlo in maniera inequivocabile la querelle scoppiata il 4 dicembre scorso tra la prima cittadina di Augusta, Cettina Di Pietro e un consigliere di Articolo Uno, Giancarlo Triberio che in Consiglio comunale aveva appellato correttamente la Di Pietro con il titolo di “Sindaca”, essendo lei una donna. Un’attenzione alla semantica che la prima cittadina non ha decisamente gradito e non ne ha mai fatto mistero come altre colleghe: “Sindaca ci sarà lei” la risposta piccata della Di Pietro che avrebbe continuato minacciando il consigliere che da quel momento in poi lo avrebbe chiamato “Giancarla”. La discussione non è passata inosservata tanto da essere sottoposta alla consigliera di Parità della Regione, Margherita Ferro, figura peraltro scarsamente nota ai più ma certamente non per demerito della dott.ssa Ferro, quanto supponiamo perché abitualmente le questioni di genere purtroppo non rivestono ancora la doverosa importanza in una società che suole definirsi “moderna”. Pronto in questo caso il richiamo della consigliera Ferro che in una nota invitata alla sindaca Di Pietro e alla presidente del Consiglio comunale di Augusta, Sarah Marturana, precisa: “La lingua italiana come sa bene, – scrive La Ferro – prevede la declinazione al maschile e al femminile e voler negare la declinazione al femminile, soprattutto quando sono le donne ai vertici delle istituzioni o comunque hanno ruoli di primo piano, vuol dire escludere ed oscurare il genere femminile da carriere e professioni”.

In seguito all’episodio si è scatenata la consueta pioggia di polemiche suddivise tra i favorevoli all’opinione della prima cittadina megarese e i progressisti, convinti che un utilizzo dei titoli professionali declinati al femminile sia non solo più rispettoso nei confronti delle professioniste in questione ma perfettamente in linea con i dettami della lingua italiana, come confermava nel lontano 1986 la studiosa, linguista ed attivista per i diritti delle donne, Alma Sabatini nel suo libro dal titolo evocativo: “Il sessismo nella lingua italiana” pubblicato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. “Al linguaggio infatti, – spiega un’altra studiosa, Cecilia Robustelliviene riconosciuto un ruolo fondamentale nella costruzione sociale della realtà e, quindi, anche dell’identità di genere maschile e femminile: è perciò necessario che sia usato in modo non “sessista” e non privilegi più, come fa da secoli, il genere maschile né tantomento continui a tramandare tutta una serie di pregiudizi negativi nei confronti delle donne, ma diventi rispettoso di entrambi i generi”. Principi ai quali si è rifatta tout cour la consigliera di Parità della Regione Margherita Ferro nel suo richiamo a Cettina Di Pietro, in soccorso della quale, con paternalistica sollecitudine, è arrivato proprio stamane, il presidente della Regione Nello Musumeci che sul caso in questione ha le idee chiare, la Ferro ha esagerato, l’uso del femminile si deve lasciare alla libera scelta di chi ricopre la carica.

Stigmatizzo e dissento dalle dichiarazioni della consigliera di parità della Regione Siciliana, Margherita Ferro, scrive Musumeciper un intervento assolutamente inopportuno e inappropriato, oltre che privo di qualsiasi fondamento giuridico. La coniugazione al femminile di una carica istituzionale, infatti, appartiene esclusivamente alla libera autonomia di chi la ricopre. Ritengo, – conclude Musumeci –che la consigliera di parità, che conosco e apprezzo da tempo dovrebbe occuparsi di ben altri problemi, invece che richiamare, senza averne titolo, un sindaco eletto direttamente dal popolo, cedendo così a un integralismo linguistico che non aiuta certo a migliorare le condizioni di disparità delle donne in Sicilia”. Insomma, per il presidente Musumeci in questo caso, la forma è una questione di libertà personale e non diviene sostanza ma solo sterile polemica.

A pensarla in maniera totalmente opposta l’avvocata siracusana Daniela La Runa, attivista per i diritti delle donne e presidente del Centro antiviolenza Ipazia che dell’uso del femminile ne ha fatto una battaglia personale ormai da anni. “Io e le mie colleghe del Centro antiviolenza siamo Avvocate e non Avvocati, – spiega – e ci teniamo a questo appellativo al femminile perché le donne hanno lottato per anni e con grande sacrificio per affermarsi in ambiti e professioni abitualmente occupati solo uomini. Gli sberleffi e gli ostacoli non sono mancati sulla loro strada ma imperterrite hanno continuato per ottenere il giusto riconoscimento al merito. Ricordo inoltre, continua La Runa che ad aprirci la strada è stata Maria Gabriella Luccioli, classe 1940, pioniera per le donne in magistratura, tra le otto che per prime solo nel 1965 poterono finalmente indossare la toga. Questo avvenne in seguito all’approvazione da parte del Parlamento, nel febbraio del 1963, della legge che stabiliva la parità tra i sessi negli uffici pubblici e nelle professioni. Una svolta avvenuta oltre cinquant’anni fa, sulla quale le donne non si sono mai adagiate perché c’è ancora molta strada fare e in questo cammino l’uso dei titoli declinati al femminile è fondamentale per far emergere ciò che altrimenti rimarrebbe sommerso e cioè che le donne sono pienamente capaci di ricoprire ruoli che per anni sono stati esclusivamente ed in maniera discriminatoria riservati agli uomini. Quindi, – conclude La Runa – si, ad avvocata, ministra, ingegnera ecc. laddove la forma corrisponde in tutto e per tutto alla sostanza”.

Nadia Germano Bramante

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